La cripta di San Giovanni in Conca è un esempio della Milano nascosta, dei suoi sotterranei popolati di leggende, custodi di tesori e resti di epoche antiche. Per questo viaggio rechiamoci in piazza Missori dove, sotto il manto stradale, si nasconde una cripta che custodisce, tra le pietre delle sue mura, resti importanti della storia del mondo. In superficie l’unico rimando della presenza di questo importante passato è il rudere posto al centro della piazza che i milanesi, con il loro umorismo caustico, hanno ribattezzato “El Dent Cariaa”, paragonandola a un dente cariato a causa della sua forma frastagliata. Per il resto è piazza moderna, che rispecchia l’architettura di una città in forte espansione. Ma fino a non molto tempo fa qui sorgeva la basilica di San Giovanni in Conca demolita nel 1949, senza rispetto alcuno per la nostra storia. Quello che non poté Barbarossa, fu portato a termine dai nuovi piani urbanistici della città: la completa distruzione di un pezzo di storia e di tradizione italiana. Come vedremo con la demolizione non si persero unicamente gli edifici: tutta le vie della Milano dei bassifondi, quella Milano popolare che trovava alloggio e cercava fortuna nel quartiere Bottonuto, con le sue taverne, i suoi bordelli e la varia umanità che animava il quartiere stesso. Fortunatamente l’italica abitudine di non portare le cose a termine in questo caso si è rivelata salvifica: dalla demolizione rimasero intaccate una parte dell’abside e della cripta. In questo modo si è riuscita a salvare l’unico esempio di cripta romanica originale presente a Milano.
Ma risaliamo come sempre il corso del tempo e iniziamo a percorrere i secoli per vedere la nascita e la fine di San Giovanni in Conca.
La chiesa di San Giovanni in Conca fu edificata in tempi antichi, tra il 97 e il 139 d.C. su quelli che erano i resti di un tempio pagano. Per la precisione la sua cripta paleocristiana fu utilizzata come mitreo (Il luogo dove si svolgeva anticamente il culto mitraico, come religione di mistero) durante l’era romana. Infatti gli scavi archeologici hanno portato alla luce il frammento di un busto di una nudità eroico-mitologica risalente al III o IV secolo d.C., che testimonierebbe la preesistenza in loco di un tempio dedicato a Mitra, l’antica divinità indo-persiana associata con il Sol Invictus, cioè con le celebrazioni rituali della nascita del sole.
Inoltre sempre qui sono stati rinvenuti resti della Mediolanum di età tardoantica: per la precisione resti di un quartiere residenziale di alto livello, come testimoniato dal ritrovamento di un mosaico policromo pavimentale ora conservato al Civico Museo Archeologico. Si tratta di un ritrovamento di straordinaria importanza in quanto costituisce uno dei rari esempi di mosaici a motivi figurati dell’antica Mediolanum, databile intorno al III d.C.
Il mosaico rinvenuto nella cripta
L’area divenne polo religioso solo nei secoli successivi, probabilmente tra il V e il VI secolo: probabilmente perché la presenza, al suo interno, di elementi architettonici di epoche differenti, rende problematica una precisa datazione. Troviamo infatti resti di decorazioni architettoniche romane, un frammento di sarcofago risalente al III-IV secolo, resti di pavimentazione paleocristiana e un capitello dell’XI-XII secolo.
La chiesa, una delle prime chiese costruite all’interno delle mura cittadine, venne edificata, come abbiamo detto, sui resti degli edifici precedenti ed era molto semplice, costituita da un unico ambiente absidato senza divisioni interne. Le decorazioni originarie sono andate quasi completamente perdute: si è conservato solo un tratto di pavimento in marmo bianco e nero, attualmente appeso a una parete della cripta. Con la conversione dell’area in luogo religioso, nei dintorni della chiesa si sviluppò una necropoli: anche qui gli scavi hanno portato alla luce un tesoro prezioso: una cassa in pietra affrescata, altro rarissimo esempio di pittura paleocristiana conservato a Milano e ora custodito nel Museo del Castello Sforzesco.
Per quanto riguarda l’origine dell’appellativo della chiesa, come spesso accade diverse sono le interpretazioni. La prima e più probabile, legata al territorio di edificazione fa risalire il termine conca dal latino ad concham, ipotizzando che l’edificio sorgesse in un avvallamento del terreno. La seconda invece mischia elementi reali e leggendari facendo risalire l’appellativo al tentativo di assassinio di San Giovanni Evangelista da parte dell’imperatore Domiziano. Infatti secondo la tradizione il Santo fu immerso in un calderone colmo d’olio bollente (la conca appunto), ma un temporale ne impedì il martirio, consentendogli così di sopravvivere: non a caso la basilica era originariamente dedicata a San Giovanni Evangelista.
Come la maggior parte degli edifici di culto, anche San Giovanni in conca subì varie modifiche che portarono a una commistione di elementi di architetture diverse, alcuni conservati all’interno della cripta stessa mentre altri hanno trovato ospitalità presso il Civico Museo Archeologico e il museo di arte antica del Castello Sforzesco. Sono state talmente tante le stratificazioni di questa chiesa che diventa anche difficile elencarle cercando di mantenere un qualche ordine. Ma proviamoci comunque, chiedendo in anticipo venia per l’eventuale confusione che potrà derivarne.
La prima modifica si rese necessaria nell’XI secolo in seguito a un devastante incendio (per confermare la letteratura e la cinematografia dove spesso basiliche e monasteri cadono preda delle fiamme, dal Nome della rosa ai Pilastri della terra). In questo primo intervento l’antico ambiente venne rispettato nel suo perimetro ma suddiviso in tre mentre la ricostruzione dell’abside non ne mutò la posizione né l’andamento originari.
La seconda modifica avvenne il secolo successivo, dopo le devastazioni ad opera dell’imperatore Federico Barbarossa nel 1162: in questa occasione vennero sostituite l’abside (visibile oggi in loco) e la facciata.
Nel XIV secolo la chiesa conobbe un periodo di rinnovato splendore: i Visconti, nella persona di Bernabò Visconti, decisero di metterla in comunicazione diretta con il proprio palazzo adottandola di fatto come cappella gentilizia e ornandola di dipinti e raffinate sculture. Tra le opere di questo periodo possiamo ammirare due importanti monumenti2dae06nebri entrambi realizzati dai maestri campionesi (già all’opera nel Duomo): quello di Bernabò, costituito dalla statua equestre (in precedenza conservata nell’abside dietro l’altare maggiore e ora al Museo di arte antica del Castello Sforzesco) e dal sarcofago e quello della moglie di Bernabò, Beatrice della Scala. Di particolare interesse risulta essere il monumento funebre di Bernabò in quanto costituisce un’eccezionale testimonianza del rinnovamento “gotico” di S. Giovanni in Conca nonché l’apice dell’intera esperienza della scultura campionese. Per tali ragioni, attardiamoci nei dettagli di questo importante complesso che si compone, come abbiamo detto, di due elementi principali: la statua equestre di Bernabò, eseguita prima del 1363, e il sarcofago, sorretto da colonne e decorato sulle fronti da rilievi raffiguranti gli Evangelisti, l’Incoronazione della Vergine, la Crocifissione e la Pietà. Poste accanto al condottiero troviamo due rappresentazioni allegoriche della Fortezza e della Sapienza, mentre sul bordo del sarcofago poggiano due angeli reggitorcia (in origine quattro). Il gruppo equestre, con le figure allegoriche che lo accompagnano, è attribuibile a Bonino da Campione mentre i rilievi del sarcofago sono stati eseguiti successivamente dalla sua bottega. La profonda matrice gotica dell’arte di Bonino si evidenzia nell’attenzione minuziosa per i tratti fisionomici del volto e per i dettagli, in modo particolare nella resa dell’armatura. Proviamo a immaginare l’effetto che avrebbe dovuto suscitare tale complesso, stagliandosi rifulgente d’oro e colore nella buia abside della chiesa.
San Giovanni in conca: monumento funebre Regina Della Scala San Giovanni in conca: monumento funebre Bernabò Visconti San Giovanni in conca: dettaglio monumento funebre Bernabò Visconti
Nel periodo della controriforma, nel 1531, la chiesa venne affidata ai carmelitani che le diedero un’impronta barocca e vi costruirono accanto il proprio monastero. Giovanni Paolo Lomazzo dipinse sia la volta dell’abside sia il dipinto al centro del coro, una crocefissione, che oggi si trova in Brera.
San Giovanni in Conca: Crocefissione di Paolo Lomazzo
Tuttavia pochi anni dopo l’ordine fu soppresso e San Giovanni venne sconsacrata dagli austriaci perdendo anche la dignità parrocchiale. Il dominio napoleonico diede anche qui il colpo di grazia e la chiesa venne definitivamente chiusa nel 1813. In aggiunta all’oltraggio della sconsacrazione, San Giovanni in Conca fu spogliata dei mausolei viscontei per essere adibita a magazzino di macchine e carri delle Ferriere Rubini di Vobarno, soci delle acciaierie Falck, mentre il campanile alto 42 metri eretto dai carmelitani venne adibito ad osservatorio meteorologico. Da quel momento il destino della chiesa fu praticamente segnato. Nel 1877 in base al nuovo piano urbanistico postunitario si decise di fa passare l’attuale via Mazzini proprio nell’area occupata dalla chiesa che venne quindi accorciata facendo arretrare la facciata mentre il settore presbiteriale risparmiato fu trasformato in forme neoromaniche da Angelo Colla. In questo stato l’edificio venne venduto alla comunità valdese: la facciata venne smontata per essere riassemblata nel dopoguerra su un lotto lungo la cerchia del Naviglio di Francesco Sforza dove sorgevano i resti bombardati di un’ala del palazzo del Principe Trivulzio scelto dal Comune per la costruzione della nuova chiesa valdese. In questo modo la facciata è stata parzialmente ricomposta nella nuova chiesa di via Francesco Sforza dove è tutt’ora visibile.
Infine il secondo dopoguerra decretò il sacrificio della chiesa alle improrogabili esigenze della viabilità, con l’apertura di piazza Diaz: dalle demolizioni si riuscì a salvare solo parte della cripta e dell’abside.
San Giovanni in conca: inizi XIX secolo San Giovanni in conca nel 1920 San Giovanni in conca, dopo i lavori di accorciamento
La storia di Milano è anche storia delle sue importanti famiglie che l’hanno attraversata nel corso dei secoli: Borromeo, Pallavicini, Sforza, Visconti. In questo caso la famiglia che ci interessa è la famiglia Visconti, in particolare il già citato Bernabò Visconti (1321 – 1385). Reggente di Milano, soprannominato “Diavolo” (soprannome che non avrebbe bisogno di spiegazioni), governò la città con pugno di ferro e colpi di testa. Da quanto hanno tramandato le cronache dell’epoca infatti, sembra che Bernabò non fosse persona particolarmente equilibrata, sebbene a lui si debba un periodo d’oro per la città di Milano. Basti pensare che durante la sua amministrazione vennero inaugurate grandi imprese architettoniche come la costruzione del Duomo di Milano e della Certosa di Pavia, il territorio dello Stato venne esteso fino a Feltre e Belluno impadronendosi di Verona e Padova, furono riconquistate tra le altre Genova e Bologna e strappate al Papato Perugia e Assisi. Ma il pezzo di vita di Bernabò che qui è pertinente è legato al palazzo dove risiedeva a Milano: nella piazza di San Giovanni in Conca, sulla sinistra guardando la chiesa, dove oggi sorgono l’Hotel dei Cavalieri e il palazzo dell’INPS, si ergeva la dimora del “Dux Mediolani”. Dimora che i milanesi imparano presto a conoscere come Ca’ di Can e di certo non accompagnando tale epiteto con un sorriso divertito. Infatti, tra le tante passioni di Bernabò, un posto preminente era occupato dai cani, da caccia ma anche mastini. Qui la cronaca storica si intreccia inevitabilmente con la leggenda perché alcune fonti riportano che ne avesse addirittura 5000. Ma poiché era uomo generoso (e qui sì, un sorriso ironico) i suoi cuccioli, riconoscibili dallo stemma visconteo sul collare, erano affidati alle cure dei suoi sempre grati sudditi. Ogni cane doveva essere mantenuto in forma fisica perfetta: quindi non avrebbe dovuto né ingrassare né dimagrire di un etto. Periodicamente era stabilita una visita al palazzo per monitorare lo stato di salute dei cani del Visconti: credo sia superfluo dire che in caso di qualsivoglia difetto riscontrato le pene erano severissime, prevedendo punizioni corporali, confisca di tutti i beni, il carcere e nei casi più gravi la pena capitale. Morto Bernabò, anche questa simpatica gabella passò a miglior vita ma non il suo ricordo, rimasto nei modi di dire: infatti l’appellativo ca’ di can rimase a indicare qualcosa fatto senza cura e in modo approssimativo, dalle conseguenze spiacevoli. Un modo di dire che poi è stato declinato in modo più volgare (lascio spazio alla vostra immaginazione)
Piazza San Giovanni in conca: a sinistra la Ca’ di can Bernabò Visconti
Bottonuto: quartiere sordido che abbiamo già incontrato in passeggiate precedenti ( qui un precedente articolo sul Bottonuto), di bettole e case chiuse, situato dove una volta sorgeva l’antico porto fluviale di Mediolanum, nei pressi dell’attuale via Larga. Ambiente malfamato, le cui strade erano percorse da personaggi quantomeno ambigui ( come il pugnalatore Massazio). Il quartiere prendeva il nome dall’opera idraulica di convogliamento delle acque del Seveso “butin-ucum” e comprendeva un dedalo di strade strette e buie, ben lontane dai fasti odierni della medesima zona. Siamo infatti nei dintorni del Duomo, nel cuore pulsante di Milano: Porta Romana, Piazza Missori, via Mazzini, Cappellari, Rastrelli, Larga.
Bottonuto: mappa Il Bottonuto nel secondo dopoguerra
Dove adesso le case (se ci sono) costano milioni al mq, all’epoca erano palazzoni fatiscenti. La zona che oggi siamo abituati a considerare quartiere della moda, dei grandi marchi e del lusso, così era descritta dal giornalista Paolo Valera nel suo libro “Milano Sconosciuta Rinnovata”: “Bisogna turarsi il naso. È un ambiente di case malfamate. Vi si vende di tutto. È una fogna, una pozzanghera. In certi momenti il vicolo delle Quaglie e un pisciatoio. Sovente c’è una ressa di soldati che lascia intendere che vi siano nascoste moltitudini di vergini. Le finestre sono sporche, diffuse su muri più sporchi di loro (…) Il sudiciume traspira dalle muraglie. Tutto è abominevole. La gente che vi vive è fradicia come le vecchie abitazioni del luogo. La demolizione sarebbe un salvagente. È una zona pestilenziale. Tutti fanno pancia, direttamente o indirettamente sulla prostituzione”. Il libro era il 1922: quindi non secoli fa.
Bottonuto: via Paolo da Cannobio Bottonuto: vicolo delle Quaglie
L’opera di demolizione e riqualificazione dell’aerea è iniziata solo alla fine degli anni ’30. Se da una parte tale riqualificazione era necessaria per salvare la zona dal degrado, dall’altra forse si sarebbero potuti recuperare pezzi importanti della nostra storia, come la Pusterla del Bottonuto una delle porte minori poste sul tracciato medievale delle mura di Milano. Questa pusterla entrò nel XIV secolo fra i possessi dei Visconti e Bernabò la utilizzò come camminamento che metteva in collegamento il 2dae06suo palazzo di S. Giovanni in Conca, la già citata Ca’ di Can, con il palazzo Ducale, l’odierno Palazzo Reale.
Quindi non tutto era degrado: tra le sue vie si muoveva una varia umanità, di estrazione popolare e la letteratura ci ha insegnato che spesso i cuori più nobili e gli animi più gentili si trovano proprio dove difetta la ricchezza materiale (Jean Valjean, un nome tra tutti). Botteghe, case di ringhiera, osterie si alternavano a immobili di pregio e palazzi della vecchia nobiltà milanese, come quelli della famiglia Odescalchi, dei Cicogna, dei Bentivoglio e degli Arcimboldi. Perse anche parrocchie minori e chiese di antico prestigio come San Giovanni in Conca o la chiesa di San Giovanni in Laterano, che possiamo ammirare solo attraverso vecchie fotografie in bianco e nero.
Bottonuto: San Giovanni in Laterano Bottonuto: pusterla